Il territorio di Amantea è posto nella sua estensione tra due promontori: Capo Verre, detto anticamente Linus, a nord (la fascia collinare antistante Belmonte Calabro); Capo Corica, detto Tyllesium, a sud, ovvero l’attuale scogliera di Coreca. Il mar Tirreno bagna le sue coste dalle cui acque sorgono i due scogli di Isca, antiche “Insulae Oenotrides“, da Omero dette “Pietre Planete”. Originario nome di Amantea è Clampetia e «suoi fondatori primi – scrive G.B. Moscato – sono gli Enotri, pelasgi al pari dei Brettii, detti altrimenti e per altra tinta di nome, Aurunci alla latina, alla greca Ausoni. E Stefano con Strabone la noverarono fra le venti città enotrie puro sangue, sotto il nome di Lampetia…». L’abitato odierno vero e proprio, alla cui sommità signoreggia un castello ormai diruto, è delimitato invece dai torrenti Catocastro e Colongi. Oltre il Colongi vi sono case sparse sulla collina e nelle contrade di San Procopio, Catalimiti, Tonnara.
In periodo magnogreco Clampetia è, in un primo tempo, colonia “federata” a Sibari. In seguito alla terribile guerra tra Crotone e Sibari e alla conseguente distruzione di quest’ultima (510 a.C.), tutta la vasta area di Clampetia venne inglobata nel dominio crotoniate e da allora la città «ebbe il suo periodo aureo di maggiore sviluppo tra il V° e il IV° secolo a.C.». Poi cadde in mano ai Brettii o Bruzi, e infine dal II secolo a.C. Clampetia entrò a far parte del lungo elenco di possedimenti romani. In Plinio il Vecchio e Pomponio Mela è menzionato un “Locus Clampetiae“, municipio romano. È in epoca bizantina che Clampetia muta nome, forse in Nepetia, probabilmente in omaggio ad una suggestiva leggenda, poi accreditata da un raro libello del ‘700, di una ninfa delle Najadi, Nepetia appunto, che innamorata dei luoghi (Nimpha quasi arenam currens) avrebbe fondato la città, donde poi il nome. Questa Nepetia comunque (dal greco nèos-pedion = nuovo campo o da nèos-ptolis = nuova città) è storicamente certo che venne elevata ad esarcato dai Bizantini perché considerata importante base marittima per traffici, commerci e caposaldo militare per la vicinanza immediata con i territori longobardi.
Il dominio bizantino ad Amantea durò circa tre secoli e questo spiega profondi mutamenti nella cittadina e nella vita del popolo (alcune parole del dialetto per esempio). Con l’avvento dei musulmani altre trasformazioni sopravvengono a cominciare dal fatto che gli arabi riconoscono alla cittadina la stessa importanza dei greci, elevandola ad emirato. Gli arabi rinsaldano innanzitutto una roccaforte già esistente ed il restante sistema difensivo della città. La dominazione musulmana abbraccia un lungo periodo di tempo, poco più di cento anni, diviso in due fasi: 835-885 e 970-1032. Pertanto le tracce della loro influenza, non solo sulla parlata, specie nella calata dialettale ma anche ad altro attinente alla pesca e al commercio, sono state profondissime e tutt’oggi ben riscontrabili. La cosa però più interessante che fecero gli arabi fu il cambiamento del nome della cittadina, fino ad allora di Nepetia, in Amantea.
Negli asciutti resoconti del geografo arabo (al servizio poi dei successivi conquistatori Normanni) Al-Idrisi, Amantea è indicata col nome di Al-Manthia. Questo Idrisi, versatile ed infaticabile viaggiatore, nella sua opera “Libro de Rugiero” (in arabo “Al-Kitab Rujar”), meglio conosciuta come “Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo” (1154), chiama appunto Amantea, Al-Manthia o Almànthiah (= la Rocca), con quel nome dunque che, ormai da quasi dieci secoli le appartiene interamente. È storicamente certo perciò che Amantea, al tempo della dominazione araba, è il nome che sostituì, in maniera definitiva, una Nepetia bizantina, ancorché improbabile. Gli arabi potenziarono la città e la dotarono di forti misure difensive, soprattutto perché «Amantea – afferma Lucio Gambi – in particolar modo servì loro da elemento di giunzione per le diverse basi che essi avevano seminato lungo le riviere del Mezzogiorno». È noto infatti che Cincimo (o Cocincimo), emiro di Amantea, inseguito dall’esercito imperiale di Ludovico Il nell’867, si chiuse saldamente nelle sicure mura del Castello. Come sappiamo, fu Niceforo Foca che, iniziando proprio da Amantea la “reconquista“, intraprese, nell’anno 855, una vittoriosa campagna militare contro i musulmani, smantellandone quasi completamente i possedimenti in tutto il territorio del Thema di Calabria. Le vicende che seguirono, invero abbastanza confuse e, per molti versi, scarsamente documentabili, si inquadrano in una generale alternanza di dominio, ora bizantino ora saraceno, su Amantea. Dominio che pressappoco può racchiudersi in un cinquantennio e sicuramente fino all’arrivo dei Normanni.
Con la conquista del Meridione da parte dei Normanni avvengono nella Calabria notevoli cambiamenti ed importantissime trasformazioni, soprattutto di ordine politico. Divenuti padroni incontrastati della regione, i Normanni si adoprano enormemente a migliorare la situazione generale del Regno. Tra l’altro provvedono alla costruzione di chiese, edifici di vario genere, piazzeforti. Per quanto riguarda queste ultime non sappiamo se posero mano a quella già esistente di Amantea, dato che mancano precise fonti storiche a cui attingere. A parte la questione dell’aggregazione della sede vescovile di Amantea alla diocesi di Tropea (1094), questa sì documentabile, niente altro sappiamo per quello che attiene alle sorti della città tirrenica almeno dopo la perdita del suo vescovato. Di sicuro continuarono le incursioni saracene, scorrerie, colpi di mano e, naturalmente, tutto ciò non causò che ulteriori lutti e rovine per la città. Furono senz’altro le continue spoliazioni e il conseguente sfacelo di gente e di luoghi che spinsero i Normanni ad aggregare la sede vescovile di Amantea a quella di Tropea nonostante la discontinuità geografica dei rispettivi territori. Aggregazione durata quasi un millennio. Amantea risorge a rango di città forte ed importante sotto gli Svevi. È un breve periodo ma con fasi di relativo benessere e prosperità. Con il crollo della dinastia sveva ed il conseguente trionfo della casa d’Angiò nel Mezzogiorno d’Italia, anche Amantea dovette subire il dominio francese pur opponendo il più strenuo valore. Per circa quattro mesi (aprile-luglio 1269) il Castello resistette validamente prima di cedere alle truppe angioine. Alla fine ormai stremata, affamata e priva di forze, Amantea fu ridotta all’obbedienza. Le stragi efferate e gli orribili eccidi che ebbe a subire la popolazione di Amantea (… extrahi ambos oculos de capite a radicibus...), dopo la resa, ad opera delle bande di Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, sono i capitoli più tragici della repressione angioina nelle Calabrie. Per tutto il periodo angioino si può dire che Amantea ebbe una sorte comune a tanti piccoli centri della Calabria. In mancanza comunque di fonti attendibili e di documenti storici di prima mano, per Amantea il periodo a cavallo tra l’Xl e il XII secolo risulta abbastanza oscuro. La ridente cittadina torna alla ribalta della storia al tempo dell’impresa militare di Carlo VIlI, Re di Francia nel 1494, quando giunse in Italia per prendere possesso del Meridione. Il Re diede l’incarico di invadere la Calabria al Maresciallo d’Aubigny. Il comandante francese incontrò non poche resistenze lungo la marcia. La prima città a contrastargli il passo fu Amantea. Infatti «mentre Cosenza gli apriva le porte, Amantea tenne testa all’assedio francese dando un eroico esempio alla controffensiva che si stava organizzando già nel resto della Calabria”. Si pensa che il d’Aubigny non volle impegnarsi in un assedio vero e proprio, ma si limitò a qualche scaramuccia. Volse così più a sud della regione e, giunto a Seminara, in una grande battaglia campale fu rovinosamente battuto dalle truppe aragonesi sotto il comando del condottiero Consalvo de Cordova, che in quei luoghi aveva organizzato una salda resistenza. Se il d’Aubigny avesse ottenuto la vittoria, Amantea sarebbe stata certamente infeudata, dato che vi erano i presupposti prima che iniziassero le operazioni militari. Infatti il Re Carlo VIll aveva già stabilito di darla in feudo a Francisco de Alegre maresciallo del regno o secondo altri a tal Guglielmo du Precy. Scampato il pericolo di una occupazione francese, Amantea corse subito a mettersi sotto le ali degli aragonesi verso i quali, da sempre, ha voluto indirizzare le simpatie politiche e il desiderio di protezione. Fu una deputazione di cittadini recatasi in Ischia presso Re Ferrante (1495), agli ordini del sindaco dei nobili Cola Baldacchino, ad ottenere ampie garanzie circa la fedeltà antica agli aragonesi. «Consigliò il Baldacchino – scrive Ottavio Serena – ai suoi cittadini che si armasse una nave, e carica della frutta che in gran copia produce questa terra e di altre siffatte cose s’inviasse all’isola di Ischia… una deputazione… con a capo egli stesso… E già nella prima metà di marzo di quell’anno 1495 quella nave giungeva ad Ischia. Il giovane re, teneramente commosso, trasse per sé, da questa non rara ma unica dimostrazione di amore, auguri di migliore avvenire; ed a prova di ciò ci resta ancora una bella ed importante lettera da lui scritta agli Amanteoti a’ 17 marzo, e al Baldacchino consegnata».
Nella lettera veniva sancita la demanialità perpetua della cittadina oltre al diritto e al privilegio di elevarsi a comune libero, dipendente soltanto dalla autorità regia. Di lì a poco tempo una seconda deputazione, al comando di Cola Cavallo, fu ricevuta in Messina di nuovo dal Re il quale ribadì solennemente con altro documento gli stessi diritti e privilegi. Dopo le vicende tra aragonesi ed angioini e la definitiva cacciata di questi ultimi dal Meridione, Amantea, così come gran parte delle altre cittadine del Regno, visse un periodo di relativa tranquillità. “Dediti ai propri commerci, continua ancora il Serena – dai quali ritraevano più che il necessario, contenti del buon governo de’ loro patrizi e altrui di non essere soggetti ad alcun barone, vivevano i cittadini di Amantea al principiar del XVII secolo». Un nuovo fatto, però, venne a turbare la vita della città, quando, nel periodo della guerra dei Trent’anni, i Viceré spagnoli, per assoldar truppe e promuovere preparativi di guerra, vendevano comuni e interi territori dichiarati liberi. Così avvenne per Amantea. Nel 1630 il Viceré Ferdinando Afan de Rivera, duca di Alcalà, per bisogno di denaro vendette Amantea per 40mila ducati (altri sostengono 60mila) al principe di Belmonte Giovanbattista Ravaschieri. Per più di un mese la cittadina subì un nuovo sfibrante assedio da parte del piccolo esercito del Ravaschieri. Il principe, forte di un migliaio di uomini, tentò d’impadronirsene “manu militari“‘ ma non vi riuscì. Accantonata la soluzione militare, il principe ricorse alle sortite, ai sotterfugi, all’inganno senza mai addivenire ad una vera conclusione della faccenda. Tutta la cittadinanza, riunitasi in parlamento, deliberò ancora una volta l’invio di una deputazione presso la corte di Filippo IV in Spagna. Fu mandato Orazio Baldacchino (1631) con oro e mercanzie di cui gli spagnoli mai si saziavano, il quale ottenne dal re la riconferma degli antichi diritti. La dolorosa vicenda comunque non finì lì, ma si protrasse per molti lunghi anni. Il contenzioso con il principe ebbe momenti di aspra contesa ma, nonostante ciò, Amantea non divenne mai suo esclusivo possesso. Gli amanteoti, forti dei diplomi regi, che sancivano la fedeltà alla corona aragonese, riuscirono sempre a cavarsela da questi impicci. Minacciata più volte di venir messa in vendita, Amantea visse, lungo quasi tutto il XVII secolo, terribili momenti di inquietudine e di paura. Ciononostante resisté con indomabile vigore. Facendo appello ai Re di Spagna, verso i quali non venne mai meno l’assoluta fedeltà ed andando incontro ad incredibili spese finanziarie, alla fine le arrise sempre il successo. I delegati amanteani riuscirono reiterate volte ad ottenere, dalla Corte di Madrid, il legittimo riconoscimento degli antichi diritti. Certamente questa speciale devozione di Amantea ai suoi re non dovette essere estranea alla concezione dello stemma della città, dove è raffigurato uno scudo a testa di cavallo con picche e alabarde ai lati, una torre merlata sormontata da corona ed in cerchio la scritta in latino: NOBILIS FIDELISSIMA REGIBUS (città nobile e fedelissima ai Re). «Da questo amore – scrive ancora il Serena – alle patrie tradizioni ne conseguì quasi naturalmente l’avversione a tutto ciò che avesse l’apparenza di novità o che potesse perturbare gli antichi ordinamenti». L’assedio del 1806-1807 da parte delle truppe francesi del generale Reynier va visto sotto questa angolazione. Fedele ai Borboni, la città di Amantea oppose, tra il dicembre del 1806 e il febbraio dell’anno seguente una strenua resistenza al nemico. Tre volte i francesi attaccarono la piazzaforte senza successo. Alla fine, dopo che i soldati ebbero fatto brillare una mina sotto i bastioni della città, gli assediati furono costretti alla resa. Firmatari del patto di resa furono il comandante della piazza di Amantea colonnello Ridolfo Mirabelli e, per l’esercito francese, il colonnello Luigi Amato, cittadino di Amantea al servizio di Napoleone. Una lapide dedicatoria murata su di una parete di una povera casa colonica, in Contrada Rota (bivio della vecchia SS. 18), ricorda ancora oggi la resa firmata dai due ufficiali. Estremo baluardo contro l’avanzata francese nelle Calabrie, Amantea raccoglieva nelle sue mura, gente d’ogni risma, specie briganti. Il governo della città era ridotto alla sola figura del Mirabelli, il cui scetticismo sulle future sorti della città nasceva giorno per giorno a continuo contatto con quelle bande di ribelli che, aduse al delitto, spesso assalivano famiglie e persone arbitrariamente accusate di intelligenza col nemico.
Numerosi episodi di stragi ed eccidi, compiuti nei momenti più cruciali dell’assedio, ai danni di onesti cittadini da parte dei ribelli, ci sono stati narrati, in uno scritto coevo, da un certo Francescantonio Meliarca dottor delle Leggi e tipico rappresentante di quel ceto medio, favorevole, sia pure confusamente, alle ideologie progressiste del tempo. Variamente giudicato, l’episodio dell’assedio si caratterizza innanzitutto per quel suo aspetto ribellistico tipico delle popolazioni meridionali verso lo straniero, visto quest’ultimo come attentatore alle proprie municipali istituzioni e ai suoi privilegi, ma anche per quel suo pronunciato misoneismo verso le idee e i principi della Rivoluzione Francese che già si diffondevano nelle più lontane contrade d’Europa. Sotto questo aspetto l’assedio non è nemmeno da ritenersi quel fulgido esempio di patriottismo e di eroismo, come ci ha sempre voluto far credere molta retorica nazionale, ma importantissima fase di un momento particolare della presa di coscienza da parte di chi davvero credeva che i tempi fossero propizi al riscatto e alla emancipazione della società meridionale. Ai fatti del Risorgimento Amantea ha dato il suo tributo di sangue attraverso la partecipazione alle lotte per la libertà e l’indipendenza della Nazione italiana. Ha inoltre contribuito con onore, con il concorso di molti suoi figli, alle vicende belliche delle ultime due Guerre Mondiali.